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I cento anni del Rendano

Teatro Alfonso Rendano: 1909-2009, cento anni di Cultura e Spettacolo

21 nov 09 (Marcello Gallo) Ad inaugurare i fasti della sua attività fu la verdiana Aida, era il 20 novembre 1909. E quale attenzione migliore per il nostro “vecchietto” (quando nacque si chiamava il teatro Massimo, solo nel ’35 la sua denominazione divenne quella attuale), ma sempre in gamba e bello teatro cittadino che rinverdirne i fasti con preparargli un compleanno coi fiocchi? Magari a partire dalla Lirica. Del resto è dal suo insediamento che il direttore artistico del Rendano, Antonello Antonante, ha inquadrato la data del centenario, come pietra miliare della sua conduzione artistico culturale nell’ambito della Lirica. Finalmente arriva e ti aspetti allora che, dalle parole si passi ai fatti. Ma soldi non ce ne sono! Comunque ti aspetti che qualche sacrificio, l’Amministrazione Comunale sia disposta a farlo: e che diamine, siamo al centenario! Qualcosa da preparare anche per non far perdere la faccia a chi ci ha messo la faccia. Ti aspetti che succeda qualcosa. Anche se non proprio d’importante, ma che al debutto della lirica ci sia un segno, un fatto particolare, senza la presunzione che sia tale da far accorrere la stampa specializzata di mezz’Italia. Più modestamente ti aspetti una celebrazione (come, del resto, è stato abbondantemente annunciato, dai responsabili del Teatro con trilli e tamburi a festa) del Centenario, mica chissacché. Ti aspetti che questa città, visto che l’ha deciso e non per prescrizione medica, ricordi degnamente i cento anni del suo teatro; ch’è di Tradizione tipo, i teatri come il Petruzzelli di Bari, il Regio di Parma e il Comunale di Modena, mica niente. Invece venerdì sera 20 novembre 2009, per i quasi intimi presenti al debutto della Lirica, nessuna sorpresa: sempre la stessa zuppa, alla quale negli ultimi quattro anni ci siamo abituati a mandare giù. Altro che festeggiamenti, solo toni decisamente dimessi per la manifestazione. Niente eventi, e… passi; niente qualità e.. pazienza; in abbondanza invece l’approssimazione che sta diventando il tratto continuo e, ahimè, caratterizzante dell’Amministrazione Comunale nel campo della cultura. In verità la serata doveva essere contraddistinta da ben altro accadimento. Debutto per i Pagliacci di Leoncavallo preceduto dalla prima mondiale di Maria Olivares opera prima di Domenico Giannetta. La direzione artistica per la data aveva commissionato a un giovane musicista calabrese, appunto, Domenico Giannetta, un’opera lirica, per il libretto di Monica Sanfilippo. Un azzardo? Ma che ben vengano di questi azzardi, anche se poi daranno luogo a risultati lontani dalle attese sperate. Ma alla data prevista, “ Maria Olivares”, non è pronta per il debutto. Ch’è successo? Giannetta non è stato in grado di mantenere la consegna nei tempi previsti? Si sa gli artisti fanno le bizze…Oppure qualcuno l’ha ascoltata prima e ha deciso che ….‘o guaglione non è cosa..? In verità su alcuni siti internet a un certo punto viene fuori che al debutto del 20 novembre, non ci sarà la messinscena di Maria Olivares, ma la sua presentazione in forma concertistica. Alla fine niente, vanno in scena solo due brani, il Prologo e il IV Quadro. Perché? Bu? Lo spettatore non lo saprà mai. Nessuno ci spiega. Ma “acchiappiamo” a volo Giannetta e lo chiediamo a lui. Così giovane e serafico ci risponde, “ Lo dovete chiedere ad altri: l’opera è pronta da un anno. La verità? Non sono arrivati in tempo i soldi per l’allestimento e quindi non se n’è fatto nulla. Aiutatemi a che l’opera possa vedere la luce almeno il prossimo anno!”. Non sono arrivati in tempo i soldi per la messinscena? Ma come, si commissiona un’opera lirica senza averne i soldi per la messinscena? Davvero? E’ proprio così. Ma solo al festival dell’approssimazione si agisce in questo modo. Se fosse vero, e ripeto se fosse vero, l’autore di quest’ingegno, alle olimpiadi del Pressappoco, prenderebbe 10 medaglie d’oro. Comunque il buon cronista deve dare conto dello spettacolo al quale è stato presente e quindi: andiamo a cominciare. La serata del debutto del centenario inizia con la Marcia Trionfale dell’Aida, che il buon direttore Daniele Agiman interpreta come una marcia funebre. Lenta, caduca, soprattutto l’orchestra è senza forza. Un po’ alla moda di Muti che interpreta Verdi come se fosse una sorta di Mahler. Verdi mi spiace per lui (e Agiman) è anche “zumpapà”. Da un palchetto le trombe staccate dal resto dell’orchestra dovrebbero dare l’idea di una curiosità, ma è tutto talmente banale…. Finita la Marcia Trionfale, salgono sul palco il sindaco Perugini e il direttore artistico del Rendano Antonello Intonante. Antonante ricorda gli anni di grandezza del teatro e giura che c’è bisogno di puntare sui giovani. Ringrazia tutti, poi dice dell’evento che ci sarà: Maria Olivares. Tocca poi a Perugini, che dirà del piacere e dell’onore d’essere cittadini cresciuti culturalmente grazia anche a un teatro come il Rendano. Ringrazia il pubblico, soprattutto gli abbonati, e i loggionisti. Auguri e grazie a tutti chi ci lavora e al pubblico. Poi. Poi si abbassano le luci tocca al Prologo e al IV Quadro della Maria Olivares. Entrano in scena la soprano Sonia Scolastici e poi il tenore Francesco Zingariello. Comincia l’esibizione. Ora, se una soprano attacca a cantare “ Freddo e immobile…” non c’è bisogno che continui perché sappiamo tutti che siamo alla fine del primo atto del Barbiere di Siviglia. Ma quando, la povera Stefania Scolastici inizia la sua performance, nessuno, essendo la Maria Olivares inedita, sa che dice, di che parla e in che periodo è collocata l’opera; la storia che narra? Ma ci voleva uno scienziato a pensare di fare una brevissima presentazione, stringata, per carità, della Maria Olivares, prima che la Scolasitici cominciasse a cantare? Finiscono i due brani. Applausi, per educazione, mica altro. Una qualsiasi valutazione su quanto ascoltato sarebbe davvero fuor di luogo. Sorvoliamo. Poi tocca ai Pagliacci. Ambientazione non classica ma interessante e ben impostata. Apre, il prologo, i quattro cantanti sul proscenio, in panni contemporanei, con Stefano Anselmi che fa Tonio. Di maniera, quasi in un interpretazione attempata, ma il baritono risulta efficace e corretto. Poi la scena è per il tenore Nicola Martinucci e la soprano Denia Mazzoli Gavazzeni. La Mazzoli Gavazzoni, non brilla, porge discretamente la frase e però tiene bene la scena, buona musicalità e voce fluida. Due sono i punti alti dell’intera opera: Ridi pagliaccio e No! Pagliaccio non son. Protagonista il tenore. Bene Martinucci nonostante il suo palmares sia buono, riesce a sbagliarli tutt’e due. Il ridi pagliaccio se lo tiene tutto in bocca, senza pathos, solo il sol di un certo rilievo. No! Pagliaccio non son, passa come una lacrima sotto la pioggia. Pareva un poggiato e basta. Bravo il tenore Zingariello. Non pervenuto il baritono Carlo Moroni.

La vera storia di Maria Olivares, Brigantessa

Maria Oliverio nasce il 30 agosto del 1841 a Casole Bruzio e all’età di diciassette anni sposa il brigante Pietro Monaco (3 ottobre 1853) col quale va a vivere a Spezzano Piccolo. Sono gli anni del nascente Regno d’Italia e della difficile annessione del Mezzogiorno alla dinastia sabauda quando, nel 1862, Maria è arrestata dalle guardie nazionali del comandante Fumel e costretta a due mesi di reclusione nelle carceri del convento di San Domenico a Celico semplicemente con lo scopo di portare il marito allo scoperto. Quando è messa in libertà viene al corrente che durante la sua assenza la sorella Teresa e il marito Pietro avevano avuto una relazione; sopraffatta dalla gelosia, la notte del 27 maggio 1862, uccide Teresa brutalmente, accoltellandola con quarantotto colpi di scure, l’unico delitto di cui si ritiene colpevole, come lei stessa ammetterà al processo. Di fronte a quest’atto estremo, che affonda le radici nella passione e nel riscattato dell’onore tradito, Maria ha solo una scelta: vestire i panni di brigante e darsi alla macchia. Si traveste da uomo, raggiunge la Sila e si unisce alla banda del marito con cui si rende complice di atti di razzia e sequestro. Nel settembre del 1863, infatti, la banda Monaco, assale e cattura una comitiva di nobili recatasi in montagna, tra cui il giovane Michele Falcone, fratello del comandante della Guardia Nazionale, il suo anziano padre, il cugino di questi, il Vescovo di Tropea e due preti. L’azione ebbe all’epoca una grande risonanza considerando il coinvolgimento istituzionale dei personaggi. Tra storia e leggenda popolare, sembra che Michele tenesse un diario nel quale si narra che Maria, finora travestita da uomo, gli rivela la sua vera identità e confessa il truce motivo che la costringe alla condizione di brigante. Michele è prima stupefatto, disorientato, inorridito; decide poi di sfruttare la situazione di “simpatia” che si era creata con la donna, e le chiede di persuadere il marito a lasciare andare il vecchio padre. Pietro acconsente a patto di riscuotere presto il riscatto. La somma promessa non arriva e Pietro, per rabbia, uccide senza scrupoli uno dei sequestrati, il cugino di Michele mentre Maria, con le lacrime agli occhi, si allontana dal posto dell’esecuzione. Nel dicembre del 1863 le indagini militari prendono una svolta: il comandante Raffaele Falcone riesce ad ottenere la complicità di tre compagni di Pietro Monaco che rivelano il nascondiglio nella valle del Jumiciello, un affluente del fiume Crati nel comune di Pedace. Sono tre briganti della stessa banda, tra cui Salvatore De Marco, il braccio destro di Monaco, che la notte del 24, dopo la cena di Natale, uccidono a colpi di pistola Pietro, sorpreso nel sonno e feriscono Maria al braccio sinistro. La tradizione vuole che la donna decapitasse il marito e ne bruciasse la testa per evitare che i soldati piemontesi la esponessero come trofeo per le vie del paese. Dopo il duro colpo inferto alla banda, Maria non si arrende: ne assume il comando e domina indiscussa la Sila per altri quarantasette giorni, insieme al fratello Raffaele, al cugino del marito, Antonio. Le indagini si stringono e i militari, nel febbraio del 1864, accerchiano la grotta dove si nascondono Maria e i suoi briganti, presso il fiume Neto nel territorio di Santa Severina. Dopo un giorno e una notte d’assedio in cui perdono la vita sia soldati piemontesi che i briganti tra cui lo stesso Antonio, Maria è costretta alla resa. Catturata, è processata dal tribunale militare di Catanzaro. Il 30 aprile del 1864 è condannata “a morte mediante fucilazione alla schiena”; il decreto dell’otto maggio dello stesso anno, emanato dal re Vittorio Emanuele II, commuta la pena di morte in quella di lavori forzati a vita. Maria muore dopo quindici anni di reclusione. Bella e crudele, diventa presto soggetto di leggende e ballate popolari che ne affidarono il mito alla tradizione.

Bibliografia - FRANCAMARIA TRAPANI, Le brigantesse, Roma, Canesi, 1968. - TARQUINIO MAIORINO, Storia e leggende di briganti e brigantesse: sanguinari nemici dell'unità d'Italia, prefazione di Antonio Spinosa, Casale Monferrato, Piemme, 1997. - PIETRO D'AMBROSIO, Brigantaggio. Pietro Monaco e Maria Oliverio. Storia e documenti di un mito della Presila, Edizioni Brenner, Cosenza, 2002.

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