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Masciari denuncia le vessazioni

 

 

Masciari denuncia “La mafia mi chiedeva il 3% i politici corrotti il 6%”

10 ott 09 “Come mio padre volevo fare l’imprenditore, così ho preso le redini dell’azienda di famiglia. Ad un certo punto mi sono imbattuto nei mafiosi che volevano il 3% sugli appalti che la mia ditta riusciva ad aggiudicarsi, un’impresa importante che era riuscita ad espandersi su tutto il territorio calabrese e anche all’estero”. Lo ha detto il testimone di giustizia Pino Masciari nel corso dei lavori del seminario a Lamezia Terme delle associazione antiracket. L’ex imprenditore ha ricordato che “il sistema politico-istituzionale colluso col potere malavitoso pretendeva il 6% dei guadagni sugli appalti, altrimenti – ha detto il testimone di giustizia – minacciavano di bloccarmi l’iter delle pratiche e gli stati di avanzamento. Poi ho dovuto favorire molte famiglie garantendo occupazione a lavoratori imposti dalla criminalità”. Una situazione sempre più insostenibile che, alla fine, ha portato Masciari alla denuncia. “Un’azione forte – ha ribadito Masciari – per cui ho pagato un prezzo altissimo. Io, per i mafiosi, dovevo essere l’imprenditore che si inginocchiava, si piegava al loro volere, ma non ho voluto sottostare alla loro legge e, allora, per me è stata la morte civile”. Masciari ha poi lamentato l’eccessiva lentezza nella burocrazia e nel sistema giustizia. “Io non sono un esempio negativo - ha detto con forza l’ex imprenditore – ma un modello da seguire perchè con la mia denuncia ho fatto condannare tante persone. Unico elemento positivo è che ho avuto la fortuna di avere una bella famiglia che mi ha sostenuto nella disperazione e nella solitudine quando ancora non c'era l’associazionismo e l'antiracket”. “Concordo – ha concluso – con i pastori della Chiesa locale che hanno definito la Calabria una terra emarginata. Questo isolamento lo abbiamo voluto noi. È ora di invertire la tendenza, non possiamo aspettarci che siano gli altri a liberarci dal male oscuro”. A conclusione dell’intervento dell’ex imprenditore, il presidente onorario della Fai Tano Grasso ha affermato: “Aiutiamo Masciari a costruirsi il futuro. Adesso Pino è uno dei nostri”.

Maggiori controlli sui subappalti. Si è aperta con una relazione di Luigi Cannavale, magistrato della Dda di Napoli, sul tema: "Racket e antiracket nell'esperienza napoletana" la seconda sessione del seminario nazionale Fai su "L'associazionismo antiracket e la convenienza a denunciare". "Il magistrato - è scritto in un comunicato dell'associazione antiracket Lamezia (Ala) - ha centrato l'attenzione sulla questione dei subappalti che, nel napoletano, sono imposti dalla camorra a prezzi stracciati. In questo modo non c'é rispetto per le normative vigenti: nessun diritto riconosciuto agli operai, nessuna sicurezza sui cantieri senza dimenticare i materiali scadenti utilizzati per i lavori". "Per evitare ciò - ha detto Cannavale - si sta pensando di sanzionare gli imprenditori che non denunciano. A Napoli si è già arrivati a qualche condanna. E' necessaria una nuova linfa per far ripartire l'associazionismo serio". Tano Grasso, presidente onorario della Fai, ha auspicato un maggiore controllo all'interno delle associazioni antiracket. "Riscontriamo - ha detto - il tentativo di alcuni imprenditori di strumentalizzare l'associazione che viene considerata un passe-partout per ottenere agevolazioni. Abbiamo una responsabilità che la storia ci ha dato - ha sostenuto Grasso - allora è preferibile che sia la metà delle associazioni esistenti, ma che queste siano serie e realmente operative". "Anche Giosué Marino, commissario straordinario del governo per la lotta all'usura e al racket - prosegue la nota - ha puntato il dito contro le speculazioni all'interno delle associazioni antiracket.'Le regole - ha detto Marino - devono essere forti e stringentì. Michele Prestipino, procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, ha affermato che Calabria e Sicilia sul piano della lotta al fenomeno estorsivo hanno situazioni diverse. Il magistrato ha ricordato due date: il 29 agosto 1991, giorno in cui venne ucciso l'imprenditore Libero Grassi; e poi il 10 novembre 2007, quando al Teatro Biondo di Palermo, nacque la prima associazione antiracket. 'Due date decisive - ha sottolineato - negli anni in cui Palermo ha avuto dei rappresentanti delle istituzioni come il prefetto e il questore che hanno segnato la loro presenza incisiva sul territorio''. "Le indagini - ha proseguito Prestipino - devono seguire una strategia. I processi di estorsione non sono come gli altri: devono avere una priorità. Il pizzo è l'Irpef della mafia. Le organizzazioni mafiose senza queste relazioni esterne non campano. La procura palermitana ha organizzato i processi con questa logica". Per quanto riguarda la Calabria Prestipino ha dichiarato: 'qui siamo indietro. Polizia e magistrati si pongono solo il problema di garantire l'anonimato di chi denuncia, quando invece proprio le forze di polizia dovrebbero organizzare la rivolta, il sistema antiracket. Questa è una cultura investigativa arretrata, si privilegia un rapporto personale con chi denuncia e l'episodio rimane isolato". "Prestipino - riporta la nota - ha insistito sul fatto che 'la collaborazione va costruita. Dobbiamo cominciare a parlarci seriamente, abbiamo bisogno di un colpo d'ala e se non ci proviamo non voleremo mai. Le risorse umane ci sono, basta scovarle. Nel 1991 - ha fatto notare - la situazione a Palermo non era migliore di quella attuale in Calabria, ma da lì è partito tuttò. Prestipino ha così concluso: 'Abbiamo un solo nemico, non e' la 'ndrangheta, ma siamo noi stessi. Noi dobbiamo iniziare a comunicare e lasciar perdere quelli che dicono che tanto e' inutile fare qualcosa contro il racket che non cambia niente".

Il rapporto tra imprenditori e pizzo. "Nell' organizzazione di 'Cosa nostra' si tengono in grande considerazione gli introiti relativi alle estorsioni, senza dimenticare che i mafiosi che praticano il pizzo fanno carriera; l'attività estorsiva 'arricchisce' il loro curriculum". Lo ha detto il prof. Rocco Sciarrone, docente all'Università di Torino che, come riporta un comunicato, intervenendo al seminario nazionale delle associazioni antiracket, ha presentato uno studio scientifico condotto nel mondo dell'imprenditoria che si è trovata ad avere rapporti con la criminalità mafiosa. La ricerca è partita dal mondo imprenditoriale della Piana di Gioia Tauro per poi estendersi in diverse altre regioni, prevalentemente del Mezzogiorno d'Italia. "Il pizzo - ha detto Sciarrone - rientra nel processo di legittimazione del potere mafioso che ha carattere coercitivo e consensuale. I mafiosi usano la forza di attrazione relazionale, incentivano obblighi e favori reciproci. Nell'imposizione del pizzo i mafiosi lasciano anche dei margini di negoziazione, quindi vengono sovvertite le regole, il modo di fare economia nel contesto locale. In questo modo il rapporto con i mafiosi si sviluppa con una serie di vincoli e opportunità". Sono state poi illustrate le diverse "categorie" di imprenditori che si sottomettono al giogo del racket e dell'usura. Ci sono gli imprenditori "subordinati" che hanno con i mafiosi una relazione di tipo puro, fondata sulla coercizione. Questa classe imprenditoriale agisce all'esterno in maniera statica:accetta di pagare e basta, con la sola garanzia che possa continuare a lavorare. Poi ci sono gli imprenditori "dipendenti": sono quelli che non sono autonomi sul mercato e che per operare hanno bisogno di fare riferimento alla mafia. E' una categoria che è spinta ad adottare un tipo di comportamento anti-imprenditoriale, un atteggiamento che limita l'attività perché compiere nuovi investimenti aumenterebbe le richieste dei mafiosi. Sciarrone è poi passato a delineare la figura dei "collusi": sono gli imprenditori che stabiliscono rapporti interattivi con i mafiosi, disposti a trovare accordi da cui derivino obblighi reciproci. Quindi una categoria che punta ad un rapporto scambievolmente vantaggioso. Nella ricerca del docente compaiono anche gli imprenditori "in fuga" e quelli "scoraggiati a priori". Altra categoria è quella degli imprenditori "strumentali" che accettano preventivamente di collaborare con i mafiosi perché pensano che questo legame possa promuovere i loro interessi e far crescere i loro affari. Esistono anche gli imprenditori "clienti" con cui viene definito un rapporto di tipo prettamente clientelare che ha le caratteristiche di essere stabile e continuativo. I mafiosi dagli imprenditori clienti ricevono dei vantaggi: investono nei cosiddetti settori protetti come quello immobiliare; si infiltrano nelle attività illegali che non richiedono particolari abilità manageriali. Tutto ciò scoraggia l'intraprendenza imprenditoriale sana, e alimenta la zona grigia tra vittime e complici da cui la mafia trae giovamento".

 

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