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    Toghe Rosso Sangue, denuncia e coscienza civile di scena al Morelli

     

    Il magistrato D'Onofrio con Magarò e l'ass. Machì

     

    Toghe Rosso Sangue, denuncia e coscienza civile di scena al Morelli

    01 apr 12 Il senso del “fare memoria” per raccontare la storia dei magistrati uccisi in Italia. E’ questo il topos da cui parte e si sviluppa “Toghe rosso sangue”, il coraggioso libro di Paride Leporace, da cui è stato tratto uno spettacolo teatrale riadattato da Giacomo Carbone e andato in scena sabato sera al Teatro Morelli di Cosenza per la regia di Francesco Marino. Un rosario di morte che va dal 1969 al 1994: ben ventisette magistrati caduti sotto i colpi della mafia, della 'ndrangheta o del terrorismo, e che in molti, troppi casi, sono stati abbandonati al proprio destino da parte di uno Stato più volte latitante, anzi addirittura connivente, che oggi li ricorda solo in parte. Per l’adattamento teatrale, tra le storie raccontate nel libro, è stato scelto di dare spazio a quelle di sei figure simbolo: Agostino Pianta, Emilio Alessandrini, Mario Amato, Bruno Caccia, Paolo Borsellino e Paolo Adinolfi. Sei uomini la cui vita è stata stroncata perché ognuno di essi ha avuto la colpa di compiere il proprio dovere, attraverso un mestiere scomodo, difficile, amaro, solitario e molto pericoloso. Lo spettacolo, una vera e propria bomba per lo spettatore, si sviluppa su un palco spoglio, arricchito solo da quattro sedie e un appendiabiti su cui è posta una toga, attraverso una narrazione a quattro voci (sono quelle dei “Lès Enfantes Terribles”, ossia Sebastiano Gavasso, Francesco Marino, Diego Migeni ed Emanuela Valiante) che, con impeto e passione, dando spazio a sprazzi di poesia e ironia, offrono cuore e anima a quei volti e alle loro storie, fatte di quotidianità, di famiglia, di orrore, di indifferenza, di morte. Non c’è spazio per la retorica, non c’è spazio per l’ipocrisia a cui ci hanno abituato orazioni funebri inutili che hanno innaffiato di parole vuote tante, troppe, esequie di stato. Sapientemente intrecciato in scene che indugiano in modo efficace in particolari che rendono vivo ogni contesto (dalla scarpa bucata di Mario Amato, alla inerme Ford Fiesta rossa del povero Rosario Livatino crivellato di colpi), ciò che trova posto sul palco è il grido di denuncia che scatena nello spettatore il senso di repulsione per verità scomode e segreti irrisolti che hanno causato tragedie umane, una vera e propria mattanza assurda per un paese democratico, il nostro. Un paese strano - come ricordava il pm della DDA di Napoli, Enzo D’Onofrio, intervenuto dopo la rappresentazione - l’unico, a parte la Colombia, dove i magistrati sono costretti a viaggiare sotto scorta perché ricoprono un ruolo pericoloso per la propria esistenza. E l’unico dove si senta la necessità di istituire assessorati alla coscienza civica, e dove sia stato possibile conferire a un terrorista, esecutore materiale dell’omicidio di due giudici, un premio intitolato a un giudice: è successo a Sergio Segio, killer di Emilio Alessandrini e Guido Galli, al quale nel 2003 è stato conferito il Premio Internazionale all’Impegno Sociale “Rosario Livatino”, intitolato alla memoria del giovane magistrato siciliano ucciso nel 1990 ad Agrigento. E il fatto che ci sia bisogno di un libro per ricordare nomi e visi che, a parte Falcone e Borsellino e pochissimi altri, non hanno trovato posto nell’iconografia militante dell’antimafia, la dice lunga su quanto sia assurdo e ipocrita il senso del ricordo e il sentimento della riconoscenza civile verso chi ha sacrificato la vita per il proprio dovere di uomo di legge e uomo di stato. “Toghe rosso sangue” ha un grosso merito: quello di aver dato dignità e voce a chi ha servito lo Stato e per questo servizio ha finito per pagare con la propria vita. Un libro forte, insomma, e uno spettacolo altrettanto intenso e ricco di efficace intensità narrativa, con un’ottima performance da parte degli attori in scena, che nel finale è stato salutato da una meritatissima standing ovation. Da segnalare con rammarico il mancato tutto esaurito in sala, nonostante la sponsorizzazione dell’Assessorato alla Formazione della Coscienza Civica del Comune di Cosenza, che ha offerto l’ingresso gratuito: un’occasione perduta per la società civile cosentina, che avrebbe potuto colorare con maggiore spessore la piacevole serata primaverile. A Carbone e soprattutto a Leporace l’encomio per aver avuto il coraggio di far luce su storie dimenticate, per contribuire senz'altro a cementare quella coscienza civile che deve farsi le ossa in una società dalla memoria troppo corta, dove il sacrificio di uomini dello Stato come Rocco Chinnici, Rosario Livatino, Antonino Scopelliti, Cesare Terranova, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino (ma anche di altri testimoni "civili", come Peppino Impastato e Libero Grassi) ogni giorno rischia di scontrarsi con la quotidianità indifferente e frettolosa. E dove, per paura o per ignoranza, si rischia di dimenticare che qualcuno, troppi, hanno perso la vita in una guerra ideologica (come nel caso delle vittime del terrorismo) o, peggio, in un conflitto apparentemente senza capo nè coda nel quale il nemico è un sudbolo cancro interno allo Stato. Non possiamo dimenticarli: li uccideremmo un'altra volta. (Luigi Caputo)

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