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    Talarico e Pandolfi presentano a Cosenza pamphlet su Lega nord

     

     

    Talarico e Pandolfi presentano a Cosenza pamphlet su Lega nord

    02 lug 11 «In qualsiasi altro paese civile e democratico del mondo, un partito come la Lega Nord sarebbe stato confinato ai margini del sistema politico e sorvegliato a vista nel cortile della vita istituzionale”. L’ha affermato Luigi Pandolfi, autore di un pamphlet fresco di stampa intitolato “La Lega Nord, un paradosso italiano in cinque punti e mezzo” edito da Laruffa. Ieri sera, nell’ampio spiazzo dinanzi la libreria Ubik di Cosenza riempito da un pubblico fatto anche di turisti coinvolti nel dibattito, il giovane intellettuale calabrese (già autore di opere come “Dalla lotta all’organizzazione – Il caso del PCI a Saracena”; “Destra – Correnti ideologiche e temi culturali nell’Italia repubblicana”; “Un altro sguardo sul comunismo, teoria e prassi nella genealogia di un fenomeno politico”) ha discusso di Lega Nord e Mezzogiorno con il consigliere regionale di Idv Mimmo Talarico. Ha moderato il dibattito il giornalista Romano Pitaro. “In Italia, questa forza politica dai tratti xenofobi e separatisti, ha trovato, e purtroppo ancora trova, legittimazione - ha spiegato l’esponente di Idv - quale forza di governo, occupando perciò le stanze più sontuose dei palazzi del potere, grazie anche alla debolezza delle classi dirigenti del Sud. La fragilità del ceto dirigente meridionale negli anni ha fatto da sponda all’avanzata leghista. Oggi si ha bisogno, però, urgentemente di riscoprire i valori della partecipazione e della condivisione dei valori costituzionali che spesso la Lega ha clamorosamente violato. Ma è chiaro che il Sud, e regioni in grave ritardo di sviluppo come la Calabria, debbono cambiare radicalmente passo. Dimostrando di saper programmare il loro futuro, per esempio impiegando saggiamente e proficuamente i fondi comunitari. Lo scandalo europeo della Lega Nord – ha aggiunto Mimmo Talarico - che fa fare delle brutte figuracce all’Italia nel consesso internazionale delle democrazie, va superato con una politica che ridefinisca i propri compiti alla luce dei principi costituzionali”. Pandolfi, che a giorni presenterà assieme a Mimmo Talarico il suo pamphlet a Milano, ha fatto riferimento al saggio dello storico Enzo Ciconte, ‘Ndrangheta Padana, per spiegare la vera natura della Lega nei confronti della criminalità: “Nell’immaginifica Padania - ha detto - laddove la Lega ha governato in tutti questi anni, contemporaneamente la criminalità organizzata calabrese ha prosperato anziché arretrare. Ho personalmente spulciato tutti i manifesti ed i documenti prodotti fin dall’inizio dalla Lega e non ho trovato un solo testo contro la criminalità organizzata. Per la Lega, la questione sicurezza e legalità hanno avuto senso soltanto in funzione anti immigrati. La Lega ha esibito i muscoli solo con i deboli e, contemporaneamente, è stata ossequiosa e propensa ad approvare tutte le leggi utili ai potenti di turno. Un vero bluff!”

    . Un vero paradosso, come quello che ci parla di una sua presunta diversità rispetto a tutti gli altri partiti italiani. La verità è che la Lega si è da tempo stabilizzata come forza politica con una doppia identità: eversiva, nel senso letterale del termine, che tende cioè a modificare strutturalmente l’ordine costituzionale esistente, e, al contempo, integrata a tutto tondo nei meccanismi autoriproduttivi del sistema che dice di voler combattere, interiorizzandone i vizi e godendone i privilegi. Da questo punto di vista, ma solo da questo, la Lega può essere considerato un partito “profondamente nazionale”. Per tutto il resto si farebbe bene a sottovalutarne di meno la capacità corrosiva, sia della coesione nazionale, che dei valori fondanti della nostra democrazia». Per capirla, e capire le oscurità italiane irrisolte, non va demonizzata. L’assunto sulla sua impresentabilità, deve confrontarsi con i guasti della realtà italiana. Pandolfi fa una ricognizione seria sul fenomeno leghista fin dalla sua comparsa; e offre un’interessante comparazione delle “sparate” dei vari dirigenti con quelle del Front Nazional di Le Pen, del Vlaams Blok, il partito nazionalista fiammingo, il Pro-Koln, l’ultradestra tedesca, e il movimento slavista russo di Vladimir Zhirinowsky. Il partito personale di Bossi, documenti alla mano, è a destra delle più estreme. Nel suo profilo identitario c’è l’odio verso l’Islam e la ricerca di unità d’intenti con l’inquietante accolita di razzisti di tutta Europa. Cinque le performance che la rendono un unicum. La sua appartenenza alla famiglia delle destre anticostituzionali; l’insopportabile contraddizione sull’immigrazione: parte essenziale dell’economia del Nord, ma oggetto di spregevole acrimonia da parte dei Leghisti; il contrasto evidente tra i suoi obiettivi e gli interessi nazionali; il suo richiamo alla legalità ed invece la realtà di compromissioni romane che l’hanno vista sostenere persino la legge sulle rogatorie, con cui s’ impedisce alla giustizia di avvalersi di prove preziose, e quella sull’abolizione del reato di falso in bilancio. Ultimo: il familismo amorale, i parenti del capo piazzati nelle Istituzioni e una serie di posizioni che stridono col suo “Roma ladrona!” Fenomeno reazionario, d’accordo. Ma c’è bisogno anche di un altro sguardo Anzitutto è stata, in un Paese esausto, uno dei tre fenomeni nuovi emersi con la fine della prima repubblica. E’ vero che Bossi, dopo avere intascato una tangente da Enimont, ha fatto giusto in tempo a sedersi in Parlamento dalla parte dei giustizialisti col cappio, ma è innegabile che abbia rappresentato la speranza di riformare la politica. Dopo il crollo della prima repubblica, nell’Italia ingessata in un sistema gerontocratico, partitocratico e clientocratico, nascono, a destra, il fenomeno leghista e il berlusconismo prima maniera, premiato elettoralmente perché si riteneva potesse spezzare l’ assetto della politica dominato da un gruppo ristretto di politici a vita e riformare, con più merito e più concorrenza, un capitalismo di relazioni ancora oggi vivo e vegeto. La Lega come reazione al non rinnovamento della classe dirigente di un Paese ancora tutto da riformare, come denuncia l’ex governatore Draghi nelle sue “Considerazioni finali”. In Spagna in 30 anni di democrazia sono stati consumati quattro leader prestigiosi; in Francia nella V Repubblica si è avuto il gollismo, il mitterandisimo ed il sarcosismo; in Germania: Khol, Schroeder e Merkel e in Inghilterra dopo la Thatcher, Major, Blair e Gordon Bown. La seconda Repubblica italiana, viceversa, ha ereditato i guasti della prima e ne ha aggiunto altri. Nello sclerotizzato sistema politico la Lega, spiega Ilvo Diamanti, ha favorito l’accesso di categorie divenute periferiche nei partiti di massa. Il leghismo e il berlusconismo hanno introdotto linguaggi nuovi, un stile diretto. Rispetto a tutto ciò, l’esperimento prodiano è parso come una reazione difensiva. A distanza della caduta della prima repubblica, dopo il crollo dell’esperimento dei sindaci eletti direttamente, sopravvive il vizio nazionale, che prescinde dalla destra e dalla sinistra, all’autoriproduzione delle classi dirigenti. Siamo una società vecchia, corporativa e localista. Che quando non sa come spiegare l’immobilismo corporativo, dà in pasto all’opinione pubblica l’idea falsa di un Mezzogiorno zavorra del Paese. La lezione che si coglie, è che la politica, di cui la Lega è parte, in fondo riproduce ed enfatizza i limiti di un Paese disunito nei fatti. La sconfitta della Lega è sancita nelle “Considerazioni” di Draghi (i sette nodi) e dalle rivoluzioni sulla sponda Sud del Mediterraneo, che hanno messa a nudo la natura della Lega: spaccona e minacciosa a parole. Ma impotente a governare la complessità. Piccoli leader arroganti con i deboli e ossequiosi con i potenti. Se però ora non la contestualizziamo, rischiamo di illuderci che a bonificare la ”gigantesca palude” che è diventata l’Italia, possano riuscirci un’opposizione litigiosa e una sinistra che, nonostante i traumi storici, non ha prodotto novità. Ancora oggi non siamo in grado di consentire l’accesso nella politica e nelle istituzioni di componenti nuove; né di applicare seriamente le quote rosa e quelle verdi (l’inserimento di giovani al di sotto dei 35 anni); né di dare il diritto di voto ai sedicenni ed agli immigrati. Uno come Obama, da noi farebbe la fila nello studio di Rutelli, D’Alema, Casini. Tuttavia ciò che più avvince il dibattito sui media è se Berlusconi lascia e chi sarà il candidato premier tra Bersani e Vendola. Invece dobbiamo interrogarci su come rendere possibile, prima che si verifichino fratture e ribellioni, che le donne ed i giovani diventino protagonisti. Il libro di Pandolfi è un ottimo incipit, per capire com’è stato possibile che un Paese nato dal Risorgimento, dalla Liberazione e dalla Costituzione, si sia affidato per così tanto tempo a un politico come Bossi che una volta disse: “Con il tricolore mi ci pulisco il culo!”. Fortuna che c’era un giudice a Cantù che lo condannò a un anno e quattro mesi; quando parte dell’opinione pubblica, sinistra inclusa, lo riteneva “uomo nuovo”, la cui carica eversiva poteva far saltare il tavolo di un potere chiuso. Quei 5 paradossi e mezzo che sono dettagliatamente analizzati nel libro, in vendita al costo di 10 euro, e che Pandolfi suddivide per argomenti: dai comportamenti razzisti alla politica immigratoria, dalla “secessione” al “Roma Ladrona”, dal familismo al federalismo

    Luigi Pandolfi (1972), laureato in Scienze politiche presso l’Università degli Studi di Perugia, ha pubblicato “Dalla lotta all’organizzazione – Il caso del PCI a Saracena” (Il Coscile, 1997), “Destra – Correnti ideologiche e temi culturali nell’Italia repubblicana” (Il Coscile, 2000), “Un altro sguardo sul comunismo, teoria e prassi nella genealogia di un fenomeno politico” (Prospettiva Editrice, 2011).

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