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      Pestaggio in carcere a Reggio, sei agenti ai domiciliari

       

       

      Pestaggio in carcere a Reggio, sei agenti ai domiciliari

      28 nov 22 Sei agenti della polizia penitenziaria in servizio a Reggio Calabria sono stati raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare ai domiciliari emessa dal gip su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e del pm Sara Perazzan. Tortura e lesioni personali aggravate ai danni di un detenuto dell'istituto penitenziario "Panzera" sono le accuse contestate ai sei agenti finiti agli arresti domiciliari. Tra questi c'è anche il comandante della polizia penitenziaria in servizio al carcere di Reggio Calabria. Per altri due indagati, il gip ha disposto la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio.

      Anche comandante adi domiciliari

      C'è anche il comandante della polizia penitenziaria della casa circondariale "Panzera" Stefano La Cava tra gli agenti arrestati per il pestaggio del detenuto napoletano. A La Cava, oltre alle accuse di tortura e lesioni personali aggravate, vengono contestati i reati di falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico, falso ideologico commesso da pubblico ufficiale in atto pubblico per induzione, omissione d'atti d'ufficio, calunnia e tentata concussione. Per due agenti, il gip ha disposto la misura interdittiva della sospensione dall'esercizio di un pubblico ufficio. Complessivamente sono otto i destinatari dell'ordinanza firmata dal giudice per le indagini preliminari. Oltre ai sei agenti finiti ai domiciliari e ai due sottoposti a interdizione, ci sono altri quattro poliziotti penitenziari, ai quali viene contestato il reato di tortura e lesioni personali in concorso, per i quali il Gip si è riservato di valutare la richiesta di applicazione della misura cautelare interdittiva formulata dalla Procura all'esito dell'interrogatorio. Il gip deciderà dopo l'interrogatorio se applicare la sospensione dall'attività professionale anche al medico dell'Istituto penitenziario, indagato per il reato di depistaggio. Stando all'inchiesta della squadra mobile, infatti, il medico avrebbe reso false dichiarazioni al pubblico ministero durante la fase delle indagini.

      Detenuto spogliato e colpito coi manganelli

      "Conducevano illegittimamente il detenuto in una cella di isolamento, senza alcuna preventiva decisione del Consiglio di disciplina ovvero senza alcuna previa decisione adottata in via cautelare dal Direttore, serbando gratuite condotte di violenza e di sopraffazione fisica che cagionavano al detenuto acute sofferenze fisiche mediante più condotte e sottoponendolo ad un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona". È quanto c'è scritto nell'ordinanza di custodia cautelare eseguita stamattina dalla squadra mobile di Reggio Calabria nei confronti di sei agenti della polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale "Panzera". Tutti e sei sono finiti agli arresti domiciliari con l'accusa di torture e lesioni personali aggravate nei confronti di un detenuto napoletano ritenuto un esponente di spicco della camorra. I fatti contestati agli indagati risalgono al 22 gennaio 2022, lo stesso giorno della visita a Reggio Calabria dell'ex ministro della giustizia Marta Cartabia. Il detenuto aveva messo in atto una protesta, rifiutandosi di far rientro nella cella dopo aver usufruito del previsto passeggio esterno. La reazione, stando alle indagini coordinate dal procuratore Giovanni Bombardieri e dal pm Sara Perazzan, è stata violentissima. Il giovane detenuto, infatti, è stato colpito ripetutamente con i manganelli in dotazione di reparto, ma anche con dei pugni. Gli agenti coinvolti, inoltre, lo hanno fatto spogliare lasciandolo semi nudo per oltre due ore nella cella ove era stato condotto.

      Condotte violente solo su un recluso

      Si chiama Alessio Peluso, il detenuto trentenne di origini campane, vittima del pestaggio che sarebbe avvenuto lo scorso all'interno della casa circondariale Panzera di Reggio Calabria. E, secondo quanto emerso dalle indagini della Squadra mobile di Reggio Calabria, il comandante della polizia penitenziaria Stefano La Cava avrebbe tentato di costringere, illegittimamente, un suo sottoposto a mostrargli delle relazioni di servizio relative alla sorveglianza dello stesso detenuto. Per tale motivo, il pm Sara Perazzan ha formulata a suo carico anche l'ipotesi di reato di tentata concussione. Nei giorni successivi alla denuncia del detenuto campano pestato dagli agenti della penitenziaria, inoltre, si sarebbero aggiunti gli esposti dei familiari di altri detenuti, tutti di origine campana. Nel corso di colloqui telefonici con i parenti, in sostanza, le persone recluse avevano riferito di essere stati malmenati all'interno del carcere. I successivi approfondimenti investigativi, anche attraverso l'escussione dei reclusi da parte del pubblico ministero titolare delle indagini, avevano permesso già in una prima fase di circoscrivere ad un solo detenuto le condotte violente, così come poi confermato dalla visione e analisi delle telecamere interne dell'istituto di pena. "Va segnalato - è scritto in una nota della Questura reggina - che le gravi condotte contestate sono ascrivibili alla responsabilità personale solo di alcuni appartenenti alla Polizia Penitenziaria, che presta servizio all'interno della struttura penitenziaria in questione con abnegazione, sacrificio e senso del dovere, e con pieno rispetto dei diritti e della dignità dei detenuti".

      UIL: Naufragio totale del sistema

      "Con quella di Reggio Calabria sono tre, in poco più di tre settimane, le inchieste in tutto il Paese a carico di appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria indagati e sottoposti a misure cautelari con la pesantissima accusa di tortura nei confronti di detenuti. Indagini che si sommano a molte altre sul territorio nazionale, a cominciare da quelle ormai nella fase processuale di Santa Maria Capua Vetere". Lo afferma, in una nota, Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria. "Ferma restando la presunzione d'innocenza e sperando che gli indagati possano dimostrare la totale correttezza del loro operato - aggiunge De Fazio - i casi, che deflagrano con cadenza ormai settimanale, non fanno altro che confermare il naufragio totale del sistema penitenziario, non potendosi certo parlare di eventi isolati o di mele marce nel tentativo di declinare le oggettive responsabilità della politica per anni di malgoverno e abbandono. A questo punto ammonta a qualche centinaio il numero degli agenti sospesi dal servizio con infamanti accuse, con ulteriori problemi per l'operatività, in un circolo vizioso che già vede la mancanza di ben 18 mila donne e uomini agli organici del Corpo. E tutto questo mentre il Governo, con la manovra di bilancio, pensa a ulteriori tagli al personale. Per noi si sta oltrepassando l'assurdo". "Il Ministro della Giustizia, Carlo Nordio - dice ancora il segretario dell'Uilpa - apra subito un confronto permanente con le organizzazioni sindacali rappresentative degli operatori del Corpo di polizia penitenziaria per discutere compiutamente, al di là degli slogan da campagna elettorale a cui ancora talvolta si assiste, di riforme, riorganizzazione, risorse umane, equipaggiamenti, strumentazioni, tecnologie e molto altro. In caso contrario il senso di responsabilità che ci pervade, ma che non sembra albergare in coloro che promuovono scelte contrarie all'efficientamento penitenziario, ci indurrà inevitabilmente e nostro malgrado all'adozione di più forti e incisive iniziative di sensibilizzazione".

      Sappe: Evitare gogne mediatiche

      "Invito tutti a non trarre affrettate conclusioni prima dei doverosi accertamenti giudiziari. La presunzione di innocenza è uno dei capisaldi della nostra Carta costituzionale e quindi evitiamo illazioni e gogne mediatiche". E' quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe) in relazione ai provvedimenti adottati nei confronti di diversi appartenenti al Corpo a Reggio Calabria a seguito di un'indagine della Procura. "Niente è più barbaro - aggiunge Capece - dei processi mediatici. Ricordo a me stesso che, in molti casi ed in diverse città, detenuti sono stati condannati per calunnia per le false accuse di presunti pestaggi subìti da alcuni poliziotti penitenziari durante la detenzione. Noi confidiamo nella Magistratura perché la Polizia penitenziaria, a Reggio Calabria come in ogni altro carcere italiano, non ha nulla da nascondere. L'impegno del primo Sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe, è sempre stato ed è quello di rendere il carcere una 'casa di vetro', cioè un luogo trasparente dove la società civile può e deve vederci 'chiaro', perché nulla abbiamo da nascondere ed anzi questo permetterà di far apprezzare il prezioso e fondamentale, ma ancora sconosciuto, lavoro svolto quotidianamente con professionalità, abnegazione e umanità dalle donne e dagli uomini della Polizia penitenziaria". "Certo fa riflettere - sostiene ancora Capece - che in poche settimane, in tre differenti istituti, appartenenti al Corpo vengano indagati, arrestati, sospesi dal servizio per presunti reati di tortura. Io credo, e in questo senso mi appello al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Ministro Carlo Nordio ed al Parlamento tutto, affinchè si preveda la sottoscrizione di un 'Protocollo operativo' nel quale indicare tassativamente le modalità d'intervento con le quali la Polizia penitenziaria deve far fronte ai diversi eventi critici che ripetutamente si verificano nelle carceri del Paese. I poliziotti penitenziari hanno diritto di conoscere come operare in caso siano posti in essere, da parte della popolazione detenuta, episodi di 'barricamento', di rivolte, di violenza, di minacce, di resistenza, di oltraggio, di danneggiamento, di incendio doloso, di evasione, di auto/etero·lesionismo, e di tutti quei giornalieri eventi, che oggi, più di prima, non si sa come affrontare". "Il primo sindacato della Polizia penitenziaria - sottolinea il segretario generale del Sappe - cerca di interpretare e, conseguentemente, dare voce ai timori, del tutto fondati, dei nostri colleghi che, quotidianamente, si trovano a dover affrontare situazioni che, oltre a esporli al rischio di aggressioni fisiche e verbali, evidentemente, li espone al pericolo di "facili" condanne, con tutte le nefaste conseguenze del caso. Sembra che sia innescato un pericoloso processo di 'scarico delle responsabilità' sull'ultimo e più debole anello della lunga catena della macchina amministrativa: ovvero la Polizia penitenziaria. E a nulla vale la conclamata carenza di personale del Corpo (attualmente la Polizia penitenziaria conta 4.000 uomini in meno), la mancanza di personale socio-sanitario, la totale assenza di sistemi tecnologici idonei, il sovraffollamento carcerario, la carenza di risorse economiche per le attività rieducative dei ristretti, l'inadeguatezza delle strutture carcerarie, le discutibili scelte gestionali operate dagli Organi di Vertice amministrativo e tanto altro". "Per casi di evasione, ad esempio - rileva Capece - chi è che ha 'pagato' è la sola Polizia penitenziaria. Il magistrato di turno condanna l'agente per colpa del custode, ma non rileva che in un carcere con 1.600 detenuti vi sono in servizio 18 agenti, che il circuito di 'antiscavalcamento' è malfunzionante e che l'agente più giovane in servizio ha superato di gran lunga i 50 anni. Per questo crediamo che Governo, Ministero della Giustizia e l'Amministrazione penitenziaria debbano impegnarsi, insieme alla Polizia penitenziaria, per la reciproca responsabilità di decidere quali modalità d'intervento adottare in ogni singola situazione, disciplinando, dunque, caso per caso. Al verificarsi di un evento critico specifico, la Polizia penitenziaria, deve poter seguire una prestabilita procedura e, di detta procedura, ne deve rispondere anche l'Amministrazione penitenziaria".

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