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    Cardinal Ravasi: la fede dei mafiosi è solo idolatria

     

     

    Cardinal Ravasi: la fede dei mafiosi è solo idolatria

    23 giu 14 La religiosità dei mafiosi è "idolatria", "non ha nessun senso". Lo ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, commentando le parole di Papa Francesco pronunciate in Calabria contro i mafiosi che, ha detto il pontefice, sono scomunicati. "Il mafioso, l'uomo di 'ndrangheta che continua nella sua azione deve sapere - ha detto Ravasi intervendo ad un convegno della Lumsa sul perdono - che non fa parte della comunione, non fa parte della comunità dei credenti, con buona pace dell'apparato religioso che egli ha, come le preghiere che fa prima di compiere il crimine e come le icone" delle quali si circonda. La cronaca ha spesso raccontato di ritrovamenti di Bibbie e santini nei covi mafiosi. "Questa è idolatria, non ha nessun senso. E' fuori" dalla Chiesa "e rimarrà fuori fino a quando la sua opzione è questa". Ma "ha la libertà - ha ricordato Ravasi - quando vuole di cominciare un itinerario di conversione".

    Il perdono vuole pentimento. Il perdono "non elide la giustizia, la trascende, la eccede". Lo ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la Cultura, in un incontro sul perdono di Dio e degli uomini organizzato dall'Università Lumsa. Il perdono dunque per i cristiani va oltre "la giustizia distributiva" e si contrappone alla "vendetta". Ma Ravasi avverte: "Il perdono non è buonismo, è un atto che eccede, che va oltre, ma esige una reazione, una sorta di controcampo" che è il pentimento e la conversione. Spesso si pensa che "ad un criminale, ad un corrotto basta confessarsi ma il sacramento comincia a valere quando si ripara, si cancella il male". Ma occorre fare attenzione: non sempre chi si pente davanti alla giustizia umana è davvero pentito. "Se parliamo di collaboratori di giustizia - ha fatto notare Giuseppe Pignatone, Procuratore Capo della Repubblica di Roma - dobbiamo parlare di pentimento tra virgolette. Parliamoci chiaro: quando si comincia con i collaboratori di giustizia è perché lo Stato è in ginocchio, è come se facesse un contratto". Pignatone ha aggiunto che "qualcuno, tra le centinaia dei cosiddetti pentiti, ha avuto una crisi religiosa". Ma non è la regola. In ogni caso "ancora oggi i collaboratori sono importanti perché danno informazioni da dentro la loro realtà che noi non potremmo reperire neanche con le più sofisticate microspie. Falcone diceva che è stato Buscetta a darci il codice per capire Cosa Nostra". Del fenomeno del pentitismo ha parlato anche Carlo Federico Grosso, Emerito di Diritto Penale dell'Università di Torino. "Avevamo bisogno di sconfiggere le organizzazioni criminali forti e quello è uno strumento importante, anche se - ha aggiunto - non è il massimo. Io ho sempre provato una certa diffidenza, un'antipatia istintiva per i collaboratori di giustizia". Luca Palamara, Sostituto Procuratore della Repubblica di Roma, ha evidenziato che "è innegabile che il ruolo dei pentiti sia insopprimibile" ma occorrerebbe porsi delle domande. Per esempio, "quanto valore hanno le rivelazioni dei pentiti quando mancano dei riscontri oggettivi? Contano o meno le qualità morali del collaboratore?", chiede Palamara. "In un'epoca come la nostra, nella quale si è perso il senso della gratuità - ha concluso il Rettore della Lumsa, Giuseppe Dalla Torre - parlare di 'per-dono' significa suscitare la nostalgia per quei vincoli solidaristici, che rendono coesa e forte la società".

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