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    Al Garden di Rende standing ovation per "L'Attesa" di Marco Caputo

     

     

    Al Garden di Rende standing ovation per "L'Attesa" di Marco Caputo

    18 lug 13 Una standing ovation di diversi minuti nella sala del cinema “Garden” gremita ha accolto la proiezione de “L’Attesa” l’ultimo cortometraggio per la regia di Marco Caputo, scritto da Davide Imbrogno e prodotto dalla famiglia Barbieri di Altomonte. Il film racconta di un pubblicitario, interpretato da Paolo Mauro, in crisi esistenziale che vive a New York,. Dopo essere rimasto folgorato da un quadro, appeso su una delle pareti di un ristorante newyorkese che riproduce il borgo medievale di Altomonte (CS), si decide ad intraprendere un viaggio. Un viaggio che lo porterà alla scoperta della sua terra d’origine, e soprattutto alla scoperta di sé. Con un cast di attori cosentini quali Giovanni Turco, Dario Brunori, Totonno Chiappetta ad eccezione degli statunitensi, Maryla Colandrea-Scotto e Josh William Gaspero, sotto l’attenta regia di Marco Caputo, il film propone ricercate scenografie ed ambienti di incredibile bellezza, la fotografia nel suo "interpretare la luce" e dare coerenza visiva alle riprese è connotata da un tocco d’autore particolare. Entusiasti a fine proiezione sia il regista Marco Caputo, sia l’autore Davide Imbrogno, sia gli attori, ma il più emozionato è apparso il produttore, Enzo Barbieri, che ha creduto in una iniziativa capace di unire l’arte alla valorizzazione del territorio. Le varie componenti del corto quali originalità e valore contenutistico, con un ritmo della narrazione da tenere incollati allo schermo ne fanno un lavoro cinematografico interessante. Non è facile costruire un film quasi completamente su un solo attore e il day by day del protagonista è scandito con lentezza, a voler fare respirare allo spettatore il senso di solitudine. Perché “L’Attesa” si concentra sul singolo, la società odierna infatti porta a sfuggire e a negare ogni tipo d’attesa, il tempo che si dedica alla riflessione ed al silenzio, condizioni necessarie per accedere alla dimensione dell’attesa e ristabilire il contatto ancestrale con essa, viene per lo più considerato “tempo perso”. Mentre la dimensione dell’attesa è priva della componente frenetica propria della nostra società: giornate interminabili, menti e corpi affaticati e stremati per lo più da ansie e preoccupazioni non sempre fondate, caos ovunque, in tutto questo quando trovare tempo per fermarsi ad attendere? Il film partecipa fuori concorso al Festival del Cinema di Tropea, e nel corso dell’estate sarà proiettato durante il Festival del Mediterraneo di Altomonte. Nel tempo la poesia, la letteratura, l’arte sono stati gli unici strumenti in grado di raggiungere l’anima di un uomo e dar voce al desiderio dell’attesa poiché permettono all’umanità di esprimersi nella sua interezza, nella sua complessità e profondità. Poeti ed artisti hanno espresso e comunicato questa natura profonda dell’uomo, questo bisogno di attendere, hanno trasmesso l’apparentemente inspiegabile ansia di tante nostre giornate trascorse come se il cuore aspettasse qualcosa di grande. Cesare Pavese, scriveva: “Aspettare è ancora un’occupazione. È non aspettar niente che è terribile”, ed anche che “lo stupore è la molla di ogni scoperta. Infatti, essa è commozione davanti all'irrazionale” (da Il mestiere di vivere, 27 novembre 1945). Ed è Franz Kafka ad esprimere la metafora del non senso della vita, in “una vita trascorsa senza altra aspettativa che l'attesa della morte”. Le vicende di K. ne “Il Castello” rappresentano la proiezione dell'impotenza e delle frustrazioni dell'uomo moderno, il quale si trova schiacciato da una realtà che sfugge ai suoi criteri di valutazione. Il protagonista si sente ovunque solo e alienato, il suo rapporto con il mondo esterno è ormai completamente compromesso. In questa prospettiva, si è perduto il senso di ogni cosa. Per Kafka la ragione diventa così inutile: l'essere viene destrutturato fino a perdere la propria identità. Eppure l’attesa di Kafka non è diversa da quella di Vladimiro e Estragone in “Aspettando Godot” di Beckett, divenuto sinonimo di una situazione (spesso esistenziale) in cui si aspetta un avvenimento che dà l'apparenza di essere imminente, ma che nella realtà non accade mai. Attendono tutti e non smettono mai di sperare. Forse è proprio questa la loro più grande colpa. Non è un grido disperato quello che riecheggia ma come fa notare Camus, “è un immane grido di speranza”. Anche Dino Buzzati riflette sulle attese: quelle cadenze interiori che hanno scandito il tempo del tenente Drogo (protagonista del Deserto dei Tartari) per poi accorgersi che si passa la vita nell’attesa di qualcosa, non sapendo che alla fine di tutte le attese, altro non c’è che la morte. Ma è l’attesa di un senso, del senso della vita, ad avere un fascino immenso: quasi come se gli si potesse andare incontro, prepararsi ad accoglierlo, gustarlo qua e là, in alcuni momenti e rimpiangerlo in altri. In quest’attesa vi è lo spazio per edificare enormi impalcature di significato, perché essa dà la possibilità di riflettere, di costruirsi o ricostruirsi. Un film “L’Attesa” che trova il suo compimento nella scoperta finale dell’autore di un segno, il segno dell’ ”hic et nunc” che appaga e stupisce, uno stupore che rende liberi. (Pileria Pellegrino)

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