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      Processo Gotha: pene pesanti, 28 condanne e 10 assoluzioni, per i vertici della ndrangheta

       

       

      Processo Gotha: pene pesanti, 28 condanne e 10 assoluzioni, per i vertici della ndrangheta

      01 mar 18 Pene pesanti per il processo Gotha che ha messo alla sbarra quelli che la DDA riitiene essere i vertici della ndrangheta, che a Reggio Calabria, e non solo, hanno fatto il bello e il cattivo tempo. La più dura quella che il Gup Laganà ha inflitto all'avv Giorgio De Stefano condannato con il massimo della pena, 20 anni, senza sconti nonostante il rito abbreviato. Una conferma di tutto l'impianto accusatorio del maxiprocedimento Gotha, frutto dall’unione di quattro diverse inchieste: Sistema Reggio, Fata Morgana, Reghion e Mammasantissima, coordinate dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e dai pm Stefano Musolino e Walter Ignazzitto. L'inchiesta ha appurato l'esistenza di un livello superiore strategico che sta sopra l'apparato organizzativo-militare che ha sempre fatto il bello e il cattivo tempo. La ndrangheta che i pentiti avevano rivelato e che fino ad oggi non si era riusciti a provare "oltre ogni ragionevole dubbio". Quella ndrangheta che oggi si è ratificata in tutto il mondo oggi ha delle condanne esemplari. Pene pesanti, dicevamo, per Di Stefano, ma anche per Domenico Stillitano e Mario Vincenzo Stillitano condannati a 20 anni, 18 anni per Roberto Franco e Antonino Nicolò. Per il più piccolo dei De Stefano, Dimitri, la pena è stata di 13 anni e 4 mesi. Invece per Antonino Araniti la pena è stata di 10 anni e 8 mesi. Il gup ha poi condannato anche l’ex sindaco di Villa San Giovanni Antonio Messina a 3 anni e 4 mesi. Tutti assolti coloro che erano stati imputati di reati minori: Angela Chirico, Antonino Chirico, Domenico Chirico, Domenico Chirico (cl.86), Maria Luisa Franchina. Assolto anche Giorgio Modafferi. Il gup ha poi accolto anche le assoluzioni chieste dalla pubblica accusa per Michele Serra e Paola Colombini.

      Un triangolo chiuso con determinazione quello che la contaminazione con la massoneria, svelato dall'ex Gran Maestro Antonio Di Bernardo e dai pentiti, era stato intrecciato a partire dagli anni 80. Un struttura gerarchica che -svela l'inchiesta- intrecciava leve istituzionali, politiche, economiche e finanziarie al potere mafioso che ha permesso di assoldare e manovrare i cosiddetti 'invisibili' che la Santa ha utilizzato per governare al Calabria e l'intero Paese. Per il Procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, Giorgio De Stefano è leader indiscusso di tutta la "Santa" ed eminenza grigia, non solo del suo clan ma dell'intera ndrangheta reggina. Evocato ogni volta che le strategie criminali si sono intrecciate con le strategie politiche ed economiche più complesse e di lungo respiro – dal golpe Borghese ai rapporti con massoneria e servizi, dalle speculazioni finanziarie oltreconfine ai grandi investimenti – l’avvocato Giorgio ha sempre respinto ogni accusa, presentandosi come un limpido professionista, vittima esclusivamente del proprio cognome. Secondo l'inchiesta, però, lui è uno dei massimi eredi di un casato mafioso che ha scritto la storia della ndrangheta. Lui non è semplicemente il cugino di don Paolino, il boss storico di Archi che negli anni 70 ha stravolto il modo di fare con una guerra di sangue, ma è anche il figlio del "re dei re" Giovanni De Stefano.

      Giorgio De Stefano – ha spiegato il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo – che per decenni si è tenuto nell'ombra è "una grande intelligenza criminale, che ovviamente non solo ha saputo negli anni mutuare il suo ruolo con grande oculatezza, ma è riuscito come solo il grande stratega sa fare, a far muovere gli altri. Purtroppo per lui determinate tracce le ha lasciate. E quelle tracce, le ha lasciate nel momento in cui si è sentito più sicuro, nel momento in cui le ricostruzioni che venivano fatte in ambito giudiziario lo rassicuravano molto. Ha abbassato la guardia ad un certo punto, perché ha pensato che la Procura della Repubblica di Reggio Calabria si sarebbe fermata al Crimine di Polsi". Ma già allora, la Dda - che stava lavoravando all’inchiesta Meta - "aveva in mano le tracce di un qualcosa che a Polsi non finiva. Perché a Polsi – ha sottolineato Lombardo - la ‘ndrangheta inizia, non finisce". Inoltre per gli inquirenti la cupola riservata della ‘ndrangheta, di cui – recita il capo di imputazione – farebbero parte anche soggetti "in corso di identificazione", è solo parte di un organismo più grande – e ancora sconosciuto – che rappresenta tutte le mafie. I pentiti la chiamano 'commissione nazionale', 'Cosa unita' o 'Cosa nuova'. E secondo quanto messo a verbale nell’ultimo anno da diversi collaboratori di giustizia calabresi, siciliani, pugliesi e milanesi da decenni coordina le strategie criminali delle mafie in tutta Italia e non solo, grazie a 'riservati' come il senatore Antonio Caridi (a processo con rito ordinario). Ma altri politici hanno permesso di piegare Reggio Calabria ai voleri dei clan condizionando -secondo l'accusa- il condizionamento di tutte le elezioni, dal 2001 al 2010, dal governo dei grandi affari societari e immobiliari realizzati a Reggio Calabria, dall’accaparramento di appalti, lavori e finanziamenti pubblici, anche grazie a strutture e uomini “riservati” che in silenzio e senza discutere hanno attuato senza discutere la strategia decisa dalla “cupola”. E il progetto, negli ultimi anni, era diventato anche più ambizioso. L'obiettivo era gestire il grande flusso di finanziamenti in arrivo per la città metropolitana. Una sorta di "città stato" di fatto alternativa alla Regione e in grado di interloquire con strutture simili a livello nazionale e internazionale così come nei progetti di Paolo Romeo attraverso politici costruiti ad hoc in "laboratorio" utili a rimpiazzare chi "non serviva più". Per questi obiettivi c'era un esercito di "pupi" inquadrati in strutture segrete paramassoniche devoti soltanto a rafforzare i clan. Tutti infiltrati nel tessuto vitale dell'economia, della politica, della grande finanza, della burocrazia, della società civile. Settori in cui la Santa ha costruito una rete interconnessa all'ala militare.

      Tutte condanne (tra parentesi le richieste): Giorgio De Stefano: 20 anni (richiesta 20 anni); Roberto Franco: 18 anni (richiesta 20 anni); Antonino Nicolò: 18 anni (richiesta 20 anni); Domenico Stillitano: 20 anni (richiesta 20 anni); Mario Vincenzo Stillitano: 20 anni (richiesta 20 anni); Antonino Idone:  2 anni (richiesta 18 anni); Dimitri De Stefano: 13 anni e 4 mesi (richiesta 15 anni); Antonino Araniti: 10 anni e 8 mesi (richiesta 15 anni); Emilio Angelo Frascati: 13 anni e 4 mesi (richiesta 15 anni); Giorgio Modafferi: assolto (richiesta 14 anni); Domenico Marcianò: 12 anni (richiesta 14 anni); Natale Saraceno: 12 anni (richiesta 14 anni); Aldo Inuso: 5 anni e 6 mesi (richiesta 12 anni); Giovanni Cacciola: assolto (richiesta 10 anni); Carmelo Nucera: 10 anni e 8 mesi (richiesta 9 anni); Giovanni Pellicano: 10 anni (richiesta 9 anni); Antonio Messina: 3 anni e 4 mesi  (richiesta 8 anni); Rosario Rechichi: 4 anni e 4 mesi (richiesta 6 anni); Bruno Nicolazzo: 4 anni e 4 mesi (richiesta 6 anni); Eva Franco: 3 anni (richiesta 4 anni); Saveria Saccà: 3 anni (richiesta 4 anni); Giuseppe Smeriglio: 3 anni (richiesta 4 anni); Alessandro Nicolò: 3 anni (richiesta 4 anni); Anna Rosa Martino: 3 anni (richiesta 4 anni); Pasquale Massimo Gira: 2 anni e 4 mesi (richiesta 4 anni); Gaetano Tortorella: 2 anni e 8 mesi (richiesta 1 anno e 8 mesi); Angela Chirico: assolta (richiesta 1 anno e 4 mesi); Antonino Chirico: assolto (richiesta 1 anno e 4 mesi); Domenico Chirico: assolto (richiesta 1 anno e 4 mesi); Domenico Chirico, cl.86: assolto (richiesta 1 anno e 4 mesi); Francesco Chirico: assolto (richiesta 2 anni); Roberto Moio: 1 anno e 10 mesi (richiesta 1 anno); Elena Inuso: 4 mesi (richiesta 1 anno); Maria Antonietta Febbe: 4 mesi (richiesta 1 anno); Andrea Santo Tortora: 4 mesi Maria Luisa Franchina: assolto (richiesta 1 anno); Michele Serra: assolto (assoluzione); Paola Colombini: assolto (assoluzione); .

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